Fotogrammi della costa malata
Da
Torre a Mare a San Girolamo, il film del litorale tradito
Un brutto arcipelago di residence e case estive.
Assemblaggi di alluminio. E degrado il reportage
FRANCESCO
CAROFIGLIO (3 gennaio 2001)
«Fotografare l’architettura è quasi impossibile. Si
possono trovare le ragioni profonde di questa difficoltà nell’essenza
stessa del fenomeno architettonico, che pur realizzandosi nella precisa
determinazione spaziale, non può essere inteso se non percorrendone
gli eventi nella viva successione dei momenti temporali che continuamente
ne mutano la relazione con noi». Ernesto Nathan Rogers, Architettura
e fotografia. Casabella, numero duecentocinque. Milano 1955.
La pioggia è un gioco da tavolo con gli aghi e il vetro. Tutto
intorno è una scatola di linee sottili e verticali che pungono
il cofano e ritagliano una intermittenza sonora crescente. Faccio girare
la chiave e riaccendo l’auto. Azzero i numeri del chilometraggio
parziale. E parto.
La radio scintilla gli alti sopra un basso costante e Peter Gabriel mi
accompagna di striscio sulla corsia lucida. Lasciandomi a destra il mare.
Ho fatto il conto sulla carta. Da Torre a Mare a San Girolamo sono ventiquattro
chilometri. Una linea di costa come una frusta.
Sul sedile di destra riposa la macchina. Per le foto digitali. Mentre
il tergicristallo rivela un paesaggio nitido di pochi istanti per poi
tornare a un realistico effetto blur. Farò una foto per ogni sosta.
Parto da Torre a mare. Proprio dentro un arcipelago di residence e case
estive. Il primo tratto è una striscia in mezzo a due muri. Da
un lato una fila grigia di stabilimenti balneari, dall’altro una
fila grigia di ville unifamiliari. I muri di cinta delle abitazioni sono
un laboratorio di esercitazioni plastiche: lisci, lavorati in superficie
dai grumi a buccia d’arancia, sinuosi nei fantasiosi sviluppi curvilinei,
severi nella scansione monolitica di pannelli bicolori tono su tono. Sono
le dieci del mattino e non passa nessuno. Il mare è agitato e scavalca
volentieri i frangiflutti nebulizzando l’orizzonte.
Al chilometro due e settecento dopo aver lasciato alle spalle un paio
di festosi assemblaggi di pvc azzurro e alluminio anodizzato arrivo ad
un bivio. Una costruzione dei primi del secolo consuma un’agonia
silenziosa dietro la cortina benevola dei muri a secco. E sopra i muri,
a completare la scena, quattro filari spinati.
E cocci. e vetri. Foto numero uno.
A sinistra del cancello di ferro battuto si recupera il raccordo della
tangenziale, a destra la strada prosegue verso una piccola insenatura.
Prendo quest’ultima direzione per mantenermi tangente alla linea
del mare e arrivo dentro uno slargo sul quale si affaccia uno stabilimento
nautico o qualcosa del genere. Forse è un deposito. Intorno uno
scenario di desolazione certa. Nitida.
Le barche rosse e azzurre si muovono solidali al ritmo cadenzato della
risacca e sembra che solo il mare si occupi di loro.
Questa piazza involontaria è circondata da un silenzio materiale
e da una rassegnazione palpabile. Una resa incondizionata dei luoghi all’incuria.
Mi viene in mente che ogni tanto d’estate passo da queste parti e
il traffico inevitabile dei bagnanti mi caccia velocemente in altre direzioni.
Quindi non vedo. Non mi accorgo, come oggi. Provo a proseguire attraverso
la scorciatoia sotto gli archi. Ma la strada è scomparsa e l’asfalto
risucchiato dentro voragini minacciose. E’ una laguna di ghiaia fango
e lamiere.
Perfettamente in accordo con il cielo impietoso.
Un cane pezzato si lamenta e mi fermo a guardarlo. Anche lui mi guarda.
Poi con un gesto repentino aggredisce una zecca tra la pancia e la coscia
sinistra lanciando un guaito. Torno indietro.
Al bivio di prima riprendo la strada che taglia verso la tangenziale,
dopo un paio di incroci sono di nuovo sul lungomare e procedo in direzione
nord verso Bari. Intanto ha smesso di piovere e il mare continua a ruggire.
Le auto adesso corrono rapide e mi sorpassano una dietro l’altra.
Alla mia sinistra di nuovo case e cancelli e architetture acrobatiche.
C’è tutto un fiorire di stili e materiali: una cappella cimiteriale
neogotica, una successione di torri ottagone, una villa moresca e bugnati
e tufo e mattoni forati in bella vista. Tutto risponde a un disegno perfetto,
una composizione in cui tutto stride e produce rumore. Perfino gli ulivi
si proiettano sghembi all’indietro e lanciano un urlo silente e strozzato.
Perfino il mare, ruggisce e non riesce a colpire. Al chilometro sette
e seicento faccio una nuova sosta. Lascio la macchina dietro la curva
e scatto un paio di foto. Si vede tutta la linea del mare e la città.
E prima della città Punta Perotti. La successione dei tornanti
e la progressione prospettica confezionano un fuoriscala assordante in
cui il campanile della cattedrale è un nano e quello scheletro
di cemento un gigante.
Mi sono fatto un sacco di domande su quel parto abnorme e non sono riuscito
a darmi una sola risposta. Chi ha deciso? Chi ha sorvegliato? Chi ha messo
le firme? Chi vincerà alla fine?
E chi perderà? Risalgo in auto e metto in moto. sul display della
fotocamera compare l’ultima foto. I pali, i palazzi interrotti e
la città vecchia. In primo piano un manifesto gigante con uno che
ride in tre quarti e una frase: «La forza di un sogno – cambiare
l’Italia». Cambio la marcia e riparto.
La radio dice che in Francia è tutto bloccato. Trenta chilometri
di code non so dove. Qui invece si fila veloci e si entra in città.
Lasciandoci alle spalle il palazzo giallo della pretura e tre milioni
di lampioni. A destra Pane e Pomodoro e un nonno con nipotina a lasciare
le impronte. La sabbia è bella e il mare pure, nonostante si agiti
e spruzzi. Sono meno belli i bidoni blu e bianchi affondati e obliqui,
sparpagliati sulla battigia. Bevono le onde e sputano poltiglia. Al chilometro
dodici e trecento passo la rotonda e dopo il Barion rapidamente mi infilo
nello svincolo in direzione porto. L’elastico nervoso della curva
del fortino si flette verso Santa Scolastica. Rallento. Faccio riposare
un po’ gli occhi sulle superfici lisce della Basilica e ridisegno
a memoria i filari della pietra calcarea intercettati qui e là
dalla luce radente del sole malato. Le bifore inquiete sparse sul fronte
che affaccia al mare sono un contrappunto necessario nella riposata armonia
della facciata. Lo stupore dinanzi alla bellezza cristallina dell’architettura
romanica mi consente di affrontare ancora il percorso. Dopo duecento metri
entro nel porto. Mi faccio autorizzare ed entro. Anche questa è
un’esperienza nuova. Giro in macchina e passo in mezzo ad enormi
locomotori e ad altrettanti rimorchi. Una processione ordinata di mezzi
militari consegna in un intervallo esatto un identico spruzzo sulla fiancata
della mia auto. Le navi sono in attesa e sono in attesa anche mille, forse
duemila piccioni messi in fila in cima ad un capannone.
Una popolazione intera immobile e stupefacente. Fotografia.
Attraverso tutta l’area portuale percorrendo la viabilità
complanare parallela ai binari e al corso Vittorio Veneto. Supero l’Orazio
Flacco e l’Istituto d’arte – è strano vederli da
qui – e procedo lungo il rettilineo fino all’uscita in prossimità
dell’incrocio di via Brigata.
Il viale che conduce alla fiera è quasi del tutto sgombro e i filari
di oleandri rimandano una traccia sonora ad ogni passaggio. Sulla destra
c’è il circo con la sua scenografia provvisoria e sullo sfondo
i ruderi del mattatoio e del frigorifero comunale. Sulla sinistra il mare
si allontana per un po’ e lascia posto ad una piazza di cemento.
Passo veloce il faro ormai inghiottito dalle termiti dell’edilizia
residenziale e punto decisamente a nord lasciandomi dietro, in rapida
successione, il quartiere fieristico e il suo ingresso monumentale, gli
stabilimenti balneari e il viadotto di collegamento con i quartieri di
Fesca e San Girolamo.
Poi mi fermo. Spengo la radio. E riprendo la marcia.
Non mi ricordo neanche come si chiama. Il lungomare di qui. Non mi ricordo
neanche quand’è l’ultima volta che ci sono venuto. Se
era estate o inverno. Mi ricordo soltanto che scappai allora e vorrei
farlo adesso. E mi vergogno. Di questi palazzi presuntuosi e ottusi. Di
questo marciapiede che invoglia soltanto a un passaggio rapido. Di fuga
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